Per la gestione dell’attività agricola e come deposito dei prodotti dell’enorme campagna, il conte Paolo II Pola fece inserire nel progetto dell’architetto veneziano Giorgio Massari la costruzione dell’attuale Barchessa.
L’enorme edificio per l’attività agricola
L’architetto veneziano Giorgio Massari progettò il piano terra diviso longitudinalmente con verso est il portico orientale con il caratteristico colonnato e verso ovest una serie di ambienti chiusi utilizzati come stanze di servizio, deposito di materiali (carri e recentemente per diverse carrozze) e cantina.
Il primo piano è occupato da un granaio e da alcune stanze create per esigenze agricole e nel 1943 diventate la dimora della famiglia Pomini sfollata da Treviso. Nel sottotetto, c’è un altro enorme granaio dalla travatura innovativa e tuttora oggetto di studio per l’originalità delle strutture.
Nel corso del ‘900 il sottotetto fu certamente utilizzato per il deposito del frumento, mentre il mais veniva stoccato nel granaio al secondo piano utilizzando per l’aerazione le finestre che davano nel porticato orientale.
Le finestre ad ovest, fronte strada, erano quelle delle stanze che, nella prima attività dopo l’inverno, ospitavano l’allevamento dei bachi da seta la cui alimentazione era costituita dalle foglie delle piante di gelso presenti numerose nei filari della campagna.
Il sottotetto della Barchessa e la “travatura innovativa”.
Nell’ambito della Fiera di San Michele, Paolo Pomini ed il nipote Guido, figlio di Anton Maria, il 22 settembre 2015 furono protagonisti di un incontro dal titolo “La Barchessa di Barcon, la Fabbrica dell’Agricoltura: storia, cultura e tradizioni” da cui abbiamo raccolto un video.
La gestione delle proprietà di Barcon
Oltre alla Barchessa, alle sue pertinenze ed al terreno dell’antico brolo dei Pola, a Barcon la famiglia Pomini possedeva l’ampio appezzamento denominato “Campagnole” e tutti i terreni venivano lavorati sotto la supervisione del loro fattore.
Secondo quanto riferito da Paolo Pomini, «in alcuni nuclei famigliari del Veneto o della nobiltà veneziana» c’era l’abitudine di gestire l’attività agricola con un certo distacco ed eccessiva fiducia e spesso ciò portava alla cessione del bene in altre mani.
Il generale Pomini, padre di Paolo, fu un accorto proprietario ed «un convinto assertore di una “autonomia famigliare”, ossia ridurre al minimo le richieste fuori dalle disponibilità che possedeva.»
A coadiuvare l’attività agricola dell’azienda di Barcon c’era Elia Gazzola, ex attendente del generale Guido Pomini e fattore della proprietà di Barcon, persona che evidentemente godeva della piena fiducia del generale ed il cui supporto veniva richiesto per attività anche diverse dai lavori nella campagna. Infatti era Elia che gestiva il viaggio dei beni della famiglia per il trasloco estivo, dalla casa di Verona verso la villa di Treviso.
Rimasto vedovo con tre figli piccoli, Elia sposò Marietta, la governante di casa Pomini, con cui avrà altri tre figli.
Oltre ai membri della sua famiglia, per la gestione della proprietà di Barcon il fattore poteva contare anche sull’aiuto di alcuni abitanti di Barcon, in particolare Luigi Gazzola e Giovanni Gazzola: i tre uomini erano accomunati dallo stesso cognome ma non avevano nessuna parentela.
L'attività agricola nel 900
La bachicoltura
Nel mese di aprile l’allevamento dei bachi da seta rappresentava la prima attività agricola dell’anno agricolo e richiedeva scienza e conoscenza. Le fasi dell’allevamento seguivano il cambio della pelle del baco, la muta, e si dovevano prestare molte attenzioni.
Dai tanti filari di gelso si recidevano pochi rami destinati ai bachi appena arrivati dall’incubatoio che, tenuti in ambienti caldi, venivano coperti diverse volte al giorno dalle foglie tagliate finemente per sfamare la loro voracità iniziale: c’era bisogno di un rifornimento continuo.
Seguivano cinque mute e, man mano che crescevano, non bastavano più poche foglie ma necessitavano di rami interi di gelso per potersi alimentare correttamente.
Il baco da seta, in dialetto “cavaliére”.
Per la prima muta dormivano per alcune ore con la testa eretta, poi si liberavano dalla vecchia pelle e potevano ricominciare a muoversi e soprattutto ad alimentarsi. Per motivi igienici e per una evidente necessità di spazio, il loro primo letto andava cambiato e le foglie di gelso per la loro alimentazione potevano essere tagliate più grossolanamente.
Con le mute successive le attenzioni diminuivano perché non erano più piccoli e la loro voracità aumentava tanto da dover dare loro non solo con le foglie ma con interi rami di gelso che venivano lasciati per permettere ai bachi di attaccarsi e filare il bozzolo.
Infatti a fine crescita, dopo la quinta muta, mangiate le ultime foglie i bachi entravano in un periodo di digiuno e, attaccandoli ai rami rimasti, iniziavano a filare ognuno il proprio bozzolo, per lo più gialli ma anche bianchi.
Tutta questa fase era seguita con apprensione per scongiurare la diffusione del calcino, una sorta di infezione provocata da un fungo che andava isolata asportando i bozzoli infetti per evitare che si diffondesse a tutta la coltura, vanificando il raccolto.
Dopo qualche giorno le donne si dedicavano a raccogliere i bozzoli che poi venivano consegnati all’essiccatoio di Giorgio Dalla Valle.
Terminata la “coltivazione” del baco, la prima dell’anno, nelle aziende agricole entravano i primi guadagni.
I numerosi filari di gelso piantati in quegli anni per supportare la bachicoltura, potevano creare zone di ombra alle coltivazioni di cereali danneggiando la rendita, ma fornivano possibilità di vita per tanti uccelli. Filari e siepi rappresentavano delle barriere naturali alla forza del vento, proteggevano i nidi nascondendo i pulcini alla vista dei predatori e facilitavano un’agricoltura più naturale, molto diversa dalle colture intensive moderne.
La mietitura
A fine giugno avveniva la mietitura del frumento, legato a mano in fasci e raccolto nei covoni posizionando i fasci con le spighe verso l’alto. I covoni rimanevano nei campi per una settimana per agevolare l’essiccazione della spiga così da prepararla alla trebbiatura, uno dei momenti più caratteristici della vita contadina dell’epoca, quando il lavoro sulla macchina per trebbiare veniva trasformato in un momento conviviale di festa gastronomica che coinvolgeva tutta la comunità familiare.
A metà del 900 vigeva la mezzadria per cui i proventi del raccolto venivano divisi equamente tra il proprietario del terreno ed il mezzadro che lo lavorava.
Metà dei sacchi di frumento da 60 kg venivano stipati nel granaio della Barchessa e l’altra metà andava al coltivatore, così anche per le coltivazioni successive del mais, cereale essenziale nelle nostre campagne perché dava la possibilità di preparare la polenta, l’alimento che nel bene e nel male sfamò per decenni i contadini veneti.
Da Wikipedia: la mezzadria (da un termine derivante dal latino tardo che indica “colui che divide a metà”) è un contratto agrario d’associazione con il quale un proprietario di terreni (concedente) e un coltivatore (mezzadro) si dividono, normalmente a metà, i prodotti e gli utili di un’azienda agricola.
Il comando dell’azienda spetta al concedente e nel contratto di mezzadria, il mezzadro rappresenta anche la sua famiglia, detta famiglia colonica.
La vendemmia
In autunno le stanze del primo piano della Barchessa che davano verso la strada venivano utilizzate per depositare una parte della vendemmia da destinare alla produzione di qualche vino particolare, passito o recioto.
La maggior parte dell’uva raccolta durante la vendemmia veniva ospitata nell’enorme cantina al piano terra della Barchessa a cui si poteva accedere da due o tre ingressi direttamente con i carri che arrivavano dalla campagna portando i caratteristici tini pieni di grappoli.
La vendemmia è un momento importante nella stagione dell’attività agricola e, allora come oggi, durava diversi giorni e dava avvio alla pigiatura dell’uva che a metà del 900 veniva effettuata solitamente da due ragazze: gonna sollevata ben oltre le ginocchia ed appoggiandosi ai bordi del tino, con i piedi ben lavati schiacciavano i grappoli che poi rimanevano a fermentare per alcuni giorni.
Nelle numerose botti presenti in cantina veniva travasato e messo a riposare il mosto che poi veniva lavorato con interventi accorti e mirati fino ad ottenere il vino, consistente fonte di reddito per il proprietario.
Nei tini rimanevano le vinacce, il residuo dell’uva, che nella campagna veneta venivano utilizzate per distillare la grappa, tassata dal governo, ma che l’intraprendenza contadina suggeriva di procedere ad una casalinga produzione, modesta ed abusiva, perché la grappa era la benzina per i freddi inverni: un sorso curava il raffreddore ed il naso che colava, anche nei bambini.
Fonti:
I dipinti di Maria Adelaide. Ricordi sentimenti ed altro ancora
di Paolo Pomini 2008, Lombardo Editore, Roma
I racconti della Barchessa
di Paolo Pomini 2011, Lombardo Editore, Roma
Alcune testimonianze le abbiamo recuperate tra gli anziani di Barcon.