Giovanni Emo

Fonte: Treccani

Giovanni Emo

(Venezia, 21 febbraio 1419 – Pontelagoscuro, 15 settembre 1483)

Nacque a Venezia, a S. Marcuola nel sestiere di Cannaregio, il 21 febbr. 1419, da Giorgio di Giovanni e da Maria Venier, nipote del doge Antonio.

Era figlio unico, come pure il padre suo, in una famiglia prestigiosa e ricca, e questo gli consenti di provvedersi di una compiuta educazione umanistica, evitando gli imbarchi per il Levante e il tirocinio nel mondo della mercatura, che costituivano la prassi usuale dei giovani veneziani. Si diede subito alla politica: poco più che ventitreenne (9 sett. 1442) era eletto tra i giudici di Petizion, quindi fra il 1448 e il 1451 fece parte alternativamente della Quarantia civile e criminale; nel 1448 sposò Chiara Priuli di Giacomo di Costantino, che gli diede Giorgio, futuro procuratore di S. Marco; Chiara tuttavia mori presto e l’E. si risposò, nel 1457, con Elisabetta Molin di Giovanni, da cui ebbe Pietro Gabriele e Leonardo, che sarebbe divenuto attivo e facoltoso mercante.

Il primo prestigioso incarico fu un’ambasceria (a detta del Priuli ne sostenne ben ventiquattro, ma il volonteroso genealogista pecca per troppo vigore): il 25 febbr. 1463 venne incaricato di recarsi presso il re d’Ungheria, Mattia Corvino, per concordare una comune offensiva contro il Turco, che stava ormai completando la conquista della Bosnia. La Repubblica era già impegnata nell’Egeo, in una guerra che doveva rivelarsi lunga e spossante: il suo obiettivo era di coinvolgere la S. Sede e, appunto, l’Ungheria, gli Stati che maggiormente dovevano temere le ripercussioni di una possibile vittoria degli Ottomani.

Sin dagli inizi di settembre l’E. poté inviare a Venezia la notizia di un primo successo: il re era pronto a sferrare una offensiva nei Balcani, dove lo Scanderbeg non avrebbe mancato di appoggiarlo, purché la Repubblica si impegnasse ad allestire una flotta di almeno quaranta galere e la inviasse a devastare la Morea. Poco più tardi alla lega aderivano Pio II e il duca di Borgogna, e anche Luigi XI di Francia sembrava inclinare ad accedervi; ma, nonostante queste positive premesse, il conflitto doveva trascinarsi a lungo, in un defatigante alternarsi di speranze e delusioni. L’E. rimase due anni a Buda (il 19 febbr. 1464 i consiglieri ducali intimavano ai giudici del Procurator di sospendere un’azione legale intrapresa contro il diplomatico – che nel frattempo era stato creato cavaliere -, trovandosi questi lontano dalla patria “in servitiis nostri Dominii sine praemio aliquo”), fino al marzo del 1465. Neppure dopo questa data, peraltro, gli fu consentito di ricongiungersi alla famiglia, se non per brevissimo tempo, dal momento che gli toccò di recarsi a Roma per ragguagliare il pontefice sull’andamento della guerra e tentare di spingerlo a un più incisivo impegno, e di li a Napoli, come ambasciatore straordinario insieme col cavalier Francesco Giustinian, per assistere alle nozze del duca Alfonso di Calabria, figlio del re Ferdinando, con Ippolita Sforza.

Giovanni Emo

Ritratto di Giovanni Emo (presunto)
olio su tavola (51×37 cm) di Giovanni Bellini, 1495-1500
Washington (USA), National Gallery of Art

Nuovamente a Venezia alla fine del 1465, qualche mese più tardi era eletto podestà e capitano a Belluno, ove fece il suo ingresso il 12 ott. 1466; rimase tra i monti del Cadore sino al 27 marzo del 1468, occupandosi soprattutto degli appalti delle miniere di Valle Imperina e dei rifornimenti di legname destinati all’Arsenale, cui era addossato il pesante compito di mantenere efficiente la flotta impegnata nel Levante.

Né lo scadere del mandato significò per l’E. la possibilità di concedersi un poco di riposo; la sua esistenza – al pari di quella di tanti altri concittadini, tra il XV ed il XVI secolo – fu scandita da un susseguirsi, che talora assunse intensità frenetica, di legazioni, viaggi, missioni: “homo ingentis animi” lo defini perciò il Sabellico, e nell’iscrizione tombale i figli non avrebbero mancato di sottolinearne i meriti, “summis in Asia et Europa legationibusque functus”. Pertanto, dopo pochi mesi di permanenza a Venezia, nel luglio 1469 riparti per l’Ungheria, dove rimase sino a tutto l’anno seguente, col compito di fornire a Mattia l’appoggio finanziario necessario per la prosecuzione della guerra. Nuovamente in patria, nel 1471 entrò a far parte del Consiglio dei dieci e, nel novembre, fu del novero degli elettori ducali: contro il più autorevole candidato, Nicolò Tron, egli si scagliò duramente, rammentandone l’attività feneratizia esercitata a Rodi, ma il Tron seppe difendersi assai bene ed il giorno 23 ottenne la nomina.

Nell’estate del 1472 l’E. fu inviato presso il sultano d’Egitto, Melech al Ashraf Kaitbai, nell’intento di ottenere la liberazione del console veneto a Damasco, che era stato imprigionato; la missione ebbe successo, anche perché l’E. era giunto con due navi cariche di regali e varie merci, e cosi il 7 genn. 1473 il sultano poteva rassicurare la Signoria circa la sorte del console, e per di più prometteva il suo interessamento affinché il pepe destinato alla Repubblica fosse secco e puro, a patto – beninteso – che i Veneti lo pagassero con oro non mescolato a rame.

A Venezia, tra la fine di luglio e l’inizio di agosto del 1473, l’E. fu tra gli elettori del nuovo doge, Nicolò Marcello, quindi, a metà settembre, parti per un’altra legazione, stavolta a Napoli; la Repubblica era ancora impegnata contro gli Ottomani, che assediavano Croia e Scutari, e paventava gli intrighi di Galeazzo Maria Visconti contro il duca di Ferrara, alleato del re Ferdinando, miranti soprattutto a separare quest’ultimo dall’alleanza con Venezia, alla quale del resto si opponevano le comuni mire su Cipro.

L’E. fu a Napoli tra l’ottobre 1473 e il settembre 1474: l’obiettivo principale della missione non venne raggiunto, ma egli poté ascrivere a suo merito il miglioramento delle relazioni commerciali tra i due Stati, in seguito all’abolizione, decretata da Ferdinando, di alcune restrizioni relative all’importazione nel Regno di panni provenienti dai domini marciani. Parrebbe da escludere ogni connessione tra questi esiti e la mancata partecipazione dell’E. all’elezione del doge Pietro Mocenigo (dicembre 1474), tanto più che il Malipiero sottolinea come la manovra venisse accolta in città con “universal mormoratione”, ma è un fatto che quest’uomo era destinato a raccogliere consensi piuttosto fuori che dentro la patria.

Poche settimane più tardi, infatti, l’E. lasciava nuovamente Venezia per sostituire l’ambasciatore Francesco Venier presso il re d’Ungheria, da parte del quale la Repubblica necessitava di un ulteriore sforzo contro i Turchi nei Balcani; non si fermò a lungo sulle rive del Danubio, ché gli fu ingiunto di recarsi direttamente a Costantinopoli, nel tentativo di indurre Maometto II ad accordare alla Repubblica condizioni di Pace meno onerose di quelle che le trattative segrete, da tempo avviate, sembravano prospettare: ma di fronte all’intransigenza del sultano, a nulla valsero le profferte dell’E., il quale dovette tornarsene tra le lagune portando con sé, quale unica consolazione, una immagine della Madonna custodita nel palazzo imperiale, che si credeva riproducesse fedelmente le vere fattezze della Vergine.

Savio di Terraferma nel primo semestre del 1476, il 5 marzo l’E. partecipava all’elezione del doge Vendramin, e l’11 agosto entrava a Brescia in qualità di capitano; di qui, nel maggio del 1477, informava il Senato della richiesta di aiuto fattagli pervenire da Ludovico il Moro, timoroso dei suoi troppi nemici, ed in particolare dello spirito di rivolta che animava i Genovesi. Sostituito nella carica da Francesco Diedo l’8 marzo 1478, due mesi più tardi muoveva alla volta di Firenze, insieme con Antonio Venier e con un grosso reparto di soldati. La congiura dei Pazzi ed il suo cruento epilogo avevano infatti innescato una spirale di vendette e di tensioni che bisognava prontamente sopire, anche per anticipare eventuali iniziative pontificie o francesi. Mentre il collega tornò subito a Venezia, l’E. rimase in Toscana sino a luglio, dopo di che gli venne affidato l’ennesimo incarico: luogotenente della Patria del Friuli.

Si recò a Udine il 20 genn. 1479, ma in compagnia di altri nobili: Domenico Zorzi (che però mori subito), Zaccaria Barbaro e Candiano Bollani. Compito dei quattro era di potenziare le strutture difensive sull’Isonzo, che recentemente si erano dimostrate incapaci di arginare le incursioni dei Turchi nella regione. In particolare l’E., che si fermò in Friuli sino al 23 giugno del 1480, nella sua qualità di luogotenente della Patria, poté condurre a termine il ripristino delle fosse e delle mura di Udine ed il potenziamento della fortezza di Gradisca.

A Venezia finalmente l’attendeva qualche mese di relativa tranquillità: il 1º ott. 1481 entrava a far parte dei consiglieri ducali, ma nell’aprile successivo optava per il saviato del Consiglio; ricopri tale carica solo per poche settimane, poiché l’incalzare degli eventi e la sua stessa indole, dinamica ed ambiziosa, finirono per distoglierlo dalla politica gestita nelle sale del palazzo per inserirlo in quella, certo a lui più congeniale, fatta d’iniziativa e d’azione.

Cosi, scoppiata la guerra del Polesine, egli fu dapprima inviato a Bologna nel tentativo di distogliere quella Repubblica dall’alleanza con i Ferraresi, e poi (9 maggio 1482) venne nominato provveditore in campo al di là del Mincio. Ben presto, però, a causa delle precarie condizioni fisiche del provveditore generale Antonio Loredan, che di li a poco sarebbe morto, l’E. ne prese il posto, e si portò nel Polesine, ossia nel settore nevralgico del conflitto, dove operava Roberto Sanseverino. Ferrara era. o gli parve che fosse, a portata di mano. Con improvvisa decisione, tipica della sua natura impulsiva, giunse senza licenza a Venezia, “e introdotto in Pregadi – scrive il Malipiero – ha ditto che l’ha modo de liaver in otto zorni la città di Ferrara, continuando ‘l duca Hercule in la so malattia. Ghe è stà risposto, che ‘l vada far el suo officio, e che el lassa ‘l cargo al Sanseverin” (p. 285).

Dopo aver partecipato alla conquista di Lendinara e Badia, in settembre l’E. fu colpito dalla malaria e ottenne di tornare per qualche tempo a Venezia, dove riprese posto tra i savi del Consiglio, nel corso del primo semestre del 1483. Poi tornò al campo, e in settembre ritenne di poter tentare un colpo decisivo sulla capitale estense, impadronendosi della munitissima fortezza della Stellata. L’assalto cominciò bene, ma i soccorsi inviati dal duca obbligarono il provveditore a dar battaglia, oltrepassando il Po a Lagoscuro. Qui, nel corso dell’azione, l’E. fu sbalzato a terra dal suo cavallo (“pervicacissimo equo”, a detta del Sabellico) e calpestato.

Mori pochi giorni più tardi presso le sue truppe, secondo il Rumor, il 15 sett. 1483.

Fu uomo di notevole cultura ed amico di molti letterati, alcuni dei quali gli dedicarono la loro opera. I figli lo seppellirono in una sontuosa arca nella chiesa di S. Maria dei Servi, sormontata dalla statua di grandezza superiore al naturale.

Riferimento: Cronistoria

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